Prendendo spunto da un interessante articolo apparso su Crimethinc,[1] si è qui voluto riproporre non solo e non tanto la traduzione del medesimo, quanto una riflessione sulla stretta connessione fra cambiamenti climatici e resilienza sociale. Il tema, per quanto possa apparire desueto, ripropone una criticità fondamentale del sistema socio-economico così come lo conosciamo, incentrato sulle aree urbane e sull’atomizzazione. Due fattori, questi, che minano alla base quel meccanismo di mutuo aiuto che è stato per centinaia di secoli il principale fattore generativo delle comunità come forma di protezione collettiva e di condivisione. Fuori da ogni retorica di stampo primitivista o di enclave, quel che in queste righe ci preme sottolineare è che senza il recupero di una misura umana dell’agire comunitario, cioè fuori dalle istanze della “community” o del “social” intesi nel loro portato virtuale e di mera interconnessione, è molto difficile recuperare sul piano di una autentica ricomposizione sociale. Fattori, questi, che erodono ogni forma di resilienza nel quotidiano. Non basta la convinzione che nei momenti di crisi e durante un disastro crollino le barriere e si riscopre magicamente il mutuo aiuto. È solo spirito di sopravvivenza e poco altro. È nel quotidiano che va recuperato l’agire comunitario disinteressato.
Attingendo alle interviste con gli anarchici locali, esploriamo le radici coloniali delle catastrofi in corso che l’uragano Ida (Agosto 2021) ha esacerbato in Louisiana e di come le comunità possono creare infrastrutture veramente resilienti per tutti. Dopo pochissimi giorni da quando l’uragano Ida ha devastato New Orleans e le aree circostanti, centinaia di migliaia di persone si trovano alle prese con il dover sopravvivere per settimane con risorse a dir poco scarse. Molti si sono posti le stesse domande che si erano fatte a seguito dell’uragano Katrina, contemplando un clima – e un mondo – che diventano meno stabili ogni giorno che passa. Nel sud della Louisiana, prevedere un altro disastro come questo è solo una questione che riguarda il quando, non il se. Come abbiamo visto in tutto il mondo, negli ultimi anni gli eventi meteorologici estremi e le crisi sociali associate ai cambiamenti climatici stanno accelerando e intensificandosi a ogni latitudine. Per coloro che non hanno ancora sentito il peso di un clima in costante cambiamento, la situazione nel sud-est della Louisiana dovrebbe costringere al confronto con un futuro di disastri incombenti. Il mondo in cui viviamo è stato costruito secondo gli imperativi del potere politico ed economico, non secondo i bisogni degli esseri umani. Dobbiamo implementare le nostre strategie ora per prepararci alle catastrofi future per costruire nuove visioni di mondo.
Distruzione e scarsità
Come spesso accade, le forniture essenziali, elettricità e acqua potabile sono saltate per settimane e persino le forniture di acqua in bottiglia hanno tardato ad arrivare. Lo stesso vale per i carburanti, il che ha implicato l’impossibilità per molti di poter abbandonare le aree più colpite nei giorni successivi al passaggio dell’uragano. In un’intervista fatta il 31 agosto 2021, “M—“, un anarchico che ha vissuto per anni nel South 7th Ward di New Orleans ha descritto la situazione con toni assai cupi: “Una tanica di benzina a New Orleans East si vende tra i 200 e i 400 $, il carburante veniva venduto nelle strade da gente armata”. Il governo dal canto suo ha fatto poco per aiutare. La preparazione alle calamità sembrava minima, la città ha fornito ripari pubblici in numero estremamente ridotto prima che la tempesta colpisse. Solo tre giorni dopo hanno cominciato a fare qualcosa, tentando di fornire servizi alle persone, allestendo rifugi per ospitarle. Gli ospedali sono stati sull’orlo del collasso con i pazienti COVID-19 e l’uragano è stato il punto di rottura dal momento che, in mancanza di altre strutture, molte persone si affidano ai servizi medici di emergenza ed all’ospedale nel tentativo di trovare riparo, cibo e acqua. Il contraltare lo si è invece notato nel celere spiegamento di forze del NOPD (Dipartimento di Polizia di New Orleans, NdT) e della Guardia Nazionale a guardia dei supermercati e dei centri commerciali. Questa sembrava essere la sola priorità: meno di 24 ore dopo il passaggio di Ida la polizia aveva schierato squadre anti-saccheggio, mentre per l’allestimento della prima struttura di accoglienza sono passati tre giorni!”
Una città ingegnerizzata per un disastro ingegnerizzato
Per diverse ragioni interconnesse, questa parte della Louisiana può essere considerata il luogo di una serie di disastri “naturali” in attesa di accadere. Tutto ciò deriva dalla colonizzazione urbana, dal capitalismo e dall’arroganza di credere che le forze economiche prevalgano sulle forze naturali. Quella che oggi è la Louisiana meridionale, l’intera area a sud di Lafayette e Baton Rouge, è di origine alluvionale, formatasi negli ultimi 7000 anni. Il fiume Mississippi trasporta miliardi di tonnellate di sedimenti dall’interno del Nord America che si sono depositati alla foce del fiume per formare il suo delta, ampliandolo alluvione dopo alluvione. La stessa ingegneria che consente alla città di continuare a funzionare come un insediamento per tutto l’anno è anche responsabile della sua maggiore vulnerabilità alle tempeste come Ida.
Man mano che ti avvicini al lago Pontchartrain, prima dell’urbanizzazione massiccia della zona, questa sarebbe stata una palude a livello del mare. L’urbanizzazione ha avuto bisogno di terre stabili e asciutte, quindi le opere di bonifica hanno, da un lato, liberato terre ma hanno anche arrestato il processo di innalzamento della costa e accelerato quello di subsidenza. Il risultato è che i centri urbani si trovano come sul fondo di un catino, sia sotto il livello del mare sia sotto il livello del Mississippi e del lago Pontchartrain. Ciò implica che ad ogni evento piovoso più forte della media gli allagamenti sono la regola. Quindi un territorio reso fragile dalla stessa presenza umana che ora dovrebbe affrontare i cambiamenti climatici, i quali nell’area si estrinsecano in frequenti tempeste tropicali e periodi di pioggia sempre più prolungati.
Per quanto quindi i residenti di New Orleans siano in costante pericolo, quelli delle aree periferiche e sub-urbane sono messi forse anche peggio, lasciati ancora più alla mercé degli elementi. L’area del Mississippi da Baton Rouge a New Orleans, conosciuta come il “viale del cancro”, ospita circa 200 impianti petrolchimici e 25 raffinerie di petrolio e gas: in quest’area si ha la più alta concentrazione di tumori nel paese. La maggior parte delle comunità in quest’area sono principalmente formate da afro, creoli e ispanici, molti dei quali lavorano in queste industrie perché c’è poco altro lavoro disponibile, esponendosi ad alti livelli di agenti cancerogeni. È altissimo il rischio di disastro causato dallo sversamento di rifiuti tossici che risulterebbe anche dal danneggiamento di un impianto petrolchimico in una tempesta catastrofica. Quindi abbiamo un impianto urbano che si fa più fragile ad ogni anno che passa e un’area industriale che appare quasi come una bomba a orologeria.
Un rischio calcolato… ma per chi?
Con così tanti rischi e difficoltà, qualcuno potrebbe chiedersi perché le persone continuino a vivere nella regione. Innanzitutto, come molti nati e cresciuti della Louisiana direbbero con orgoglio, perché è casa. Il che può dirsi da Marghera a Nuova Delhi, da Tampa a Canicattì. Ogni situazione, ogni contesto geografico per chi vi è nato o per chi ci ha vissuto da molti anni, è casa o, comunque, è un territorio cui si sente di appartenere pur con tutte le contraddizioni. Nel caso di New Orleans il mix sincretico di culture formatosi nel corso degli anni, che ha coinvolto più di trenta popoli indigeni, sopravvissuti all’Africa occidentale della tratta degli schiavi, colonizzatori e immigrati europei, scambi regolari con Haiti, Cuba e altri paesi caraibici e l’afflusso più recente di persone dal Vietnam, dall’Honduras e dal Messico, hanno creato un luogo diverso da qualsiasi altra parte della Terra. La cultura unica e vibrante sostiene le persone e le persone sostengono la cultura.
In secondo luogo, per molte persone sarebbe molto difficile andarsene. Le persone maggiormente colpite vivono in contesti fragili. Sono individui e famiglie che non possono andarsene, che vivono in condizioni precarie, che non hanno un’auto, che forse hanno qualche trauma storico legato a Katrina, o che semplicemente non hanno nessun altro posto dove andare. Ida si è intensificata così rapidamente che non c’era abbastanza tempo per prendere le misure necessarie per organizzare una completa evacuazione dell’area metropolitana di New Orleans, cosa che implica in modo cruciale organizzare il trasporto per chi non ha veicoli personali. Anche quando il tempo ci fosse stato, poi, le linee di trasporto urbano ed extraurbano per l’evacuazione erano già strutturalmente carenti. Le persone che soffrono sono tipicamente le persone emarginate e trattate come eccedenze dal capitalismo: popoli indigeni, persone di colore, minoranze di varia natura, indigenti e i residui della classe operaia. Questo è vero oggi come lo era nel 2005.
Questo ennesimo disastro mette in risalto le precarie condizioni preesistenti. Le persone comuni, gli uomini della strada, lo avevano detto un milione di volte già sulla pandemia ma l’uragano lo ha dimostrato nuovamente, a riprova che la struttura stessa del sistema socio-economico in cui viviamo è sempre a un passo dal collasso. Una volta che il potere costituito tornerà nella città di New Orleans, potrebbe non tornare per tutti. Come non lasciare che lo Stato detti i termini del ritorno? E cosa significa ciò, per come è stato amministrato il potere nel passato? È qui che crediamo che la narrazione proveniente da New Orleans possa rappresentare un paradigma rappresentativo della “maniera occidentale” di gestione del potere. Un modalità che è totalmente funzionale al modo di riproduzione capitalista.
Oggi, le città a monte di New Orleans sono abitate dai discendenti delle persone che hanno lavorato qui come schiavi. Lavorano nelle raffinerie e negli impianti chimici che hanno superato ma non completamente sostituito le piantagioni di canna da zucchero. Le chiatte per il grano e le navi portacontainers hanno sostituito le chiatte del Mississippi che guidavano la stragrande maggioranza del commercio interno nel 1800. Circa il 60% di tutto il grano americano destinato all’esportazione utilizza il fiume Mississippi come principale flusso logistico e se per qualche motivo si fermasse, ciò avrebbe enormi conseguenze non solo per l’economia statunitense ma anche per l’economia mondiale. Quindi realtà produttive “costrette a funzionare” nonostante tutto. Qui si comincia a toccare con mano il coacervo di resistenza dei residenti a lasciare il proprio territorio e la tenacia con la quale l’apparato produttivo non cambia. In barba al fatto che i danni siano più alti dei profitti, nel momento in cui l’utile viene capitalizzato dai pochi che gestiscono la produzione ed i costi vengono socializzati su territorio e popolazione è chiaro che c’è tutto l’interesse a che non ci si muova di lì. Se, in più, i danni e le opere di protezione le paga il contribuente, chi li smuove questi dinosauri?
Il fatto che i disastri colpiscano in modo sproporzionato i più emarginati è già stato dimostrato molte volte. Non si tratta però semplicemente di aver bisogno di una migliore politica statale. Disastri come questo non sono solo il risultato di incompetenza o mancanza di un’adeguata pianificazione tecnocratica; sono il risultato inevitabile di processi che concentrano il potere decisionale nelle mani di pochi e li ricompensano per non preoccuparsi delle conseguenze per gli altri. Viviamo in una società di disastri perpetui: non tanto perché la vita è brutta, brutale e breve al di fuori della zona di comfort assicurata dal potere statale e dalla tecnologia capitalista ma perché le priorità che guidano lo sviluppo e l’applicazione di quel potere e quelle tecnologie hanno ben poco per rendere la vita sostenibile per la maggior parte delle persone.
A New Orleans, come in altre parti del mondo, l’imperativo del profitto che guida il capitale transnazionale del petrolio, dei prodotti chimici e delle spedizioni determina cosa viene protetto dall’aggravarsi delle tempeste, come viene attuata questa protezione a breve termine e chi è escluso dalla protezione. La governance, quella reale costruita attorno a interessi economici e finanziari di livello internazionale, non ha interesse nel salvaguardare alcune categorie di persone o la cultura dalla quale esse provengono. Anche i membri della upper class locale, che hanno la possibilità di evacuare la città con largo anticipo in caso di uragano, rispetto a chi non possiede neanche un mezzo di trasporto, che hanno ricevuto una quota sproporzionata dei fondi di ricostruzione dopo Katrina, sono comunque subalterni ai bisogni della classe dirigente che muove i grossi interessi. I poveri non li tengono nemmeno da conto, e più si scende lungo il fiume da New Orleans, più ci si addentra nei quartieri più disagiati e più le persone sono lasciate alla propria sorte. Quindi, se non possiamo contare sui sistemi che amministrano e distribuiscono risorse per le soluzioni, cosa possiamo fare per noi stessi?
Agire nell’era del disastro
Gli eventi meteorologici estremi, insieme ad altre forme di crisi, sono ora così comuni che stanno superando la capacità dei media di riferire su di loro e generano un affaticamento da compassione. Prima che i danni di un uragano, inondazione o incendio possano essere spiegati, il ciclo di notizie è passato al successivo. Nel frattempo, la vita per le persone colpite si muove a passo di lumaca mentre cercano di raccogliere i cocci. Per molti in tutto il mondo è già impossibile immaginare come potrebbe essere la vita senza crisi costanti. Negli anni a venire, queste crisi avranno un impatto sempre maggiore su di noi.
È un errore presumere che, quando le crisi ecologiche diventano “abbastanza gravi”, lo Stato alla fine sarà costretto a fare qualcosa per aiutare. Da una prospettiva capitalista, rischi e conseguenze distribuiti in modo non uniforme sono sempre stati essenziali per il mercato, creano accumuli di domanda localizzati, innescano spese pubbliche per il ripristino, ecc.: una vera e propria manna. In una società coloniale come gli Stati Uniti, le persone di tutte le classi sociali danno per scontato che ci saranno vittime. Qualsiasi approccio che rimanga all’interno della logica del capitalismo produrrà solo soluzioni sintomatiche, mentre i problemi rimarranno sistemici. Ciò significa due cose per le risposte di base ai catastrofici cambiamenti climatici. Innanzitutto, la lotta contro il capitalismo e le sue premesse è un elemento essenziale dei soccorsi in caso di catastrofe. Per proteggere noi stessi e gli altri, dobbiamo lottare contro i sistemi politici ed economici che producono le condizioni che rendono inevitabili i disastri. In secondo luogo, mentre ci organizziamo per affrontare queste crisi, non dobbiamo fare affidamento o riprodurre il tipo di strutture autoritarie che hanno prodotto questi problemi.
Guardando indietro alle conseguenze di Katrina, possiamo vedere come sia lo Stato sia il settore non profit spesso peggiorano le cose anziché migliorarle. Il Governo Federale non ha fatto e mai farà quasi nulla per i poveri di New Orleans, si è solo limitato a trasformare la città in un’occupazione militarizzata spendendo fondi ingenti per la difesa invece che investire in resilienza sociale. Il processo di sciacallaggio post disastro non avviene però per colpa di qualcuno che va a razziare i centri commerciali, in seguito ai vari disastri (non solo a New Orleans): gli sviluppatori hanno sfruttato l’opportunità per spostare le persone e accelerare il processo di gentrificazione.
“Molte persone che ne hanno vissuto le conseguenze sono rimaste con una profonda sfiducia nello Stato. Nella speranza di aggirare ed evitare il riproporsi di fallimenti dello Stato e del settore non profit, molte persone hanno sperimentato modelli di autogestione. La pandemia e i disastri climatici degli ultimi anni hanno stimolato un’esplosione di gruppi di mutuo soccorso negli Stati Uniti. “Aiuto reciproco” – una parola d’ordine anarchica da oltre un secolo e un concetto di buon senso condiviso da milioni di persone per molto più tempo – è diventata una parola d’ordine. L’idea è semplice: le persone si aiutano a vicenda e tutti ne beneficiano. In pratica, alcune persone hanno iniziato a usare questa etichetta per descrivere precisamente il tipo di strutture di beneficenza e le mosse per l’influenza politica cui la struttura dell’aiuto reciproco originariamente forniva un’alternativa.
Le reali differenze di potere e di accesso alle risorse tra persone che agiscono per un obiettivo simile o in condizioni simili possono creare sfide quando l’obiettivo è arrivare a relazioni genuinamente orizzontali. In alcuni casi, la relazione è così costruita sulla dipendenza che quando l’attivista se ne va, le persone che ricevono quell’aiuto ne soffrono. È qualcosa che si è ripetuto in ogni zona disastrata in cui sono stato. Invece di farlo, ci chiediamo: come possiamo utilizzare le nostre competenze, l’accesso alle risorse e l’infrastruttura su cui stiamo lentamente lavorando nella regione in un modo che non faccia dipendere tutto da noi personalmente, che non richieda il ruolo dell’attivista o qualche tipo di specializzazione? Come possiamo cedere le chiavi di quel tipo di accesso? È allo stesso tempo più pratico e più in linea con la nostra etica”.
Possiamo quindi affermare in chiusura che esistono due tipi di resilienza, quella propagandata dall’establishment e quella che viene avvertita sempre più dalla società. Quello voluta dallo Stato, in quanto elemento essenziale all’interno del processo di produzione e riproduzione in chiave capitalista, è un concetto di resilienza legato al mercato, cioè rendere tutto flessibile e duttile in modo che la rapida successione di catastrofi rappresenti il nuovo business, il nuovo asset produttivo. Un processo che deve prevedere la cittadinanza ammaestrata ed il portafogli dello Stato sempre pronto ad aprirsi. Altra è la resilienza sociale che si autodetermina, che non deve rispondere a pressanti domande esogene da mercati voraci o competitors senza scrupoli, resilienza fatta di interazioni comunitarie, mutuo aiuto e lavoro collettivo, quotidiano, costante. L’unico modo per superare diversità e conflitti imposti da chi lavora per separare, scardinare e isolare le comunità e gli individui gli uni dagli altri.
J. R. & Lorcon
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